Ghostbuster

Dovevo raggiungere Gettysburg entro sera. Il tempo infame di quest’autunno americano mi aveva però molto rallentato. La mia compagna di viaggio era stata una pioggerellina impalpabile, in una di quelle giornate uggiose che ti fa entrare l’umido nelle ossa e nell’amima. Procedevo lento, dentro questa nube che levava contorno alla strada e che rendeva lo scorrere del tempo indefinito. Non sapevo dove mi trovavo e quanto mancasse alla cittadina, ero solo stanco. Notai con disappunto che sulla strada non c’era un anima viva, ed in seguito rilevai quanto questo pensiero fosse giusto. In lontananza, su una collina, mi parve anche di vedere la sagoma di un bisonte.  “Devo avere le traveggole, sarà meglio che cerchi qualcuno a cui domandare” pensai. Viaggiai per un’altra mezz’ora senza incrociare nessuno. Vidi solo una luce lontana, in fondo ad una stradina sterrata e pensai che fosse l’occasione per chiedere un’informazione. La percorsi ed arrivai ad una vecchia casa vittoriana, parecchio dismessa. Sul malandato recinto in legno, si leggeva la scritta Harrison. Vidi un uomo seduto sulle scale d’ingresso, parcheggiai la moto e gli andai incontro. Dissi che mi ero perso e che volevo sapere più o meno dove mi trovavo. Per tutta risposta disse: “bello il tuo cavallo” , o almeno così tradussi. “E’ una Electra Glide” risposi, ma lui non sembro prestare attenzione alle mie parole. “Devo andare a Gettysburg”  continuai “quanto manca?”. Ebbe un sussulto. “Gettysburg” e sputo per terra, “covo di bastardi”. L’uomo mi guardò negli occhi e il suo sguardo divenne indagatore. Mosse lentamente la testa da destra a sinistra come se cercasse di leggermi nelle pupille. “Che cosa cerchi?” mi chiese. “Ho un appuntamento con un amico” risposi dopo una pausa imbarazzata. “No, ti ho chiesto cosa cerchi” ed avvicinò maggiormente la sua testa alla mia. Pensai che avesse circa la mia età, ma che la portasse decisamente male. Era vestito con una camicia azzurra, dei pantaloni alla zuava e degli stivaloni. Non capivo come non sentisse freddo, visto la temperatura. Io, nonostante la mia modernissima giacca da moto ero intirizzito. “Quello che cerchi non lo trovi a Gettysburg”. La conversazione aveva preso una piega assurda e non dissi niente, perché non sapevo che dire. Lui allora si avvicinò al mio orecchio. In quell’instante mi parve che ogni altro rumore si quietasse, e che anche le particelle di nebbia, restassero sospese immobili, mentre un attimo prima scorrevano dal basso verso l’alto. In quell’interminabile istante bisbigliò: “vivi figliolo, vivi” e lo fece con una voce talmente greve che mi parve su una tonalità che non avevo mai sentito. Un brivido mi attraversò dalla testa ai piedi, ma non era paura,  era diverso, era come la vertigine di un abisso. Per sdrammatizzare dissi che mi sembrava un consiglio tratto dal film “l’attimo fuggente”, ma lui non replicò, ed anch io lasciai cadere la cosa. “Devi andare dritto per questa strada, cinque miglia e sei a Gettysburg” disse. Lui rimase seduto, praticamente indifferente ai miei preparativi per rimontare in moto. Lo ringraziai, ma non mi rispose. Mi affrettai a partire e nonostante l’incontro non fosse stato fra i più logici, sapevo che in qualche modo mi potevo fidare. Cercai la sua sagoma dagli specchietti ma non riuscii a vederla e proseguii. La strada sterrata mi obbligava a procedere con molta attenzione, ma non era questo che mi preoccupava: temevo di aver sbagliato ad accettare l’indicazione di un tipo così strano. Quando scorsi le prime case ne fui sollevato ed ancora di più quando vidi il cartello che segnalava la mia meta. Cercai la strada principale e mi infilai nel primo posto che avesse l’aria di promettere un caffè caldo o quant’altro potesse scaldarmi. Parcheggiai l’Electra ed entrai suscitando l’interesse degli astanti. Più tardi avrei cercato il motel dove avevo la prenotazione, ma ora volevo solo rilassarmi un momento. Chiesi del caffè caldo e quando lo bevvi mi sembrò incredibilmente il caffè più buono del mondo. Avevo sempre pensato che quell’intruglio, chiamato caffè americano fosse quanto di più ignobile si potesse bere, ma in quell’istante, quel liquido caldo, il locale con della gente, le mie mani gelate attaccate alla tazza, rendevano quel caffè non solo accettabile, ma buonissimo. “Di dove sei” chiese il barista mentre mi versava altro caffè. “From Italy” risposi fra l’attenzione generale. “Italia” replicò il tipo di fianco a me, con il classico accento degli americani quando dicono una parola italiana.  Era un giovane di trenta/trentacinque anni, vestito con dei pantaloni di velluto pesante, un giacchetto color senape e un cappello alla Indiana Jones, che pochi istanti prima era seduto fuori e che era entrato seguendomi, forse incuriosito. Dalla sua cintola pendava un coltellaccio, cosa che mi parve veramente bizzarra, ma non preoccupante. “E ora da dove arrivi?” mi chiese il giovane. “Da York, ma mi ero perso.” “Che strada hai fatto” mi chiese incuriosito. “Non saprei, la statale fino ad un certo punto, poi una strada sterrata. Sono passato vicino alla fattoria di un certo Harrison, che mi ha detto di proseguire su quella strada e sono arrivato”. “Harrison?” trasalì alzandosi di fretta. Uscì praticamente di corsa e ne fui stupito. Guardai il barista incuriosito e questo mi disse:”E’ un ghost-buster”. “Un ghost-buster?” replicai a bocca aperta. “Si, un acchiappafantasmi e tu ne hai visto uno. La fattoria degli Harrison è disabitata da tempo immemorabile.” Non capivo come potesse acchiappare i fantasmi con un coltello, ma non lo chiesi. Tutto mi sembrava irreale; quella lunga giornata in moto, l’incontro sulla strada, ed anche quella gente, che mi guardava seria senza parlare. Il barista sembrò leggermi nel pensiero e disse: “non preoccuparti amico, è solo Gettysburg. Domani ci sarà il sole e tutto ti sembrerà diverso”.

Mi incamminai verso il motel, dopo averne chiesto indicazione. Li avrei trovato il mio amico e gli avrei raccontato la mia incredibile avventura. Sempre non l’avessi sognata.

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