L’albero del Ténéré, quando la Parigi-Dakar si correva in Africa

Due piloti (Edi Orioli e Franco Picco) e un appassionato sincero come Angelo Caprotti raccontano il loro rapporto con deserto del Niger, quando la Parigi-Dakar si correva in Africa

Di Marcello Lo Vetere*

Crediti fotografici: Edi Orioli, Gigi Soldano – Albero del Ténéré: Michel Mazeau, Wikimedia Common. Tutte le foto a colori dell’Africa moderna, ringraziamenti a Costantino Paolacci

Oggi è un accrocchio di tubi di ferro che vuole somigliare a un tronco con due rami. Ma una volta in Niger, sulla velocissima pista che serpeggia tra le dune di sabbia tra Agadez e Bilma, c’era davvero un albero. Almeno fino al 4 novembre 1973 quando un camion lo tirò giù.

Era un’acacia solitaria: l’unica nel raggio di centinaia di chilometri  nel deserto del Ténéré (coordinate Gps 17°45′00″N10°04′00″  http://goo.gl/maps/Nvwdp). Non era in formissima ma resisteva: le sue radici si accontentavano della poca umidità che trasudava da una fonte di acqua salmastra a oltre 40 metri sotto terra. L’acqua, quella buona, è alle saline di Fachi a sud-ovest di Bilma.

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“I touareg lo chiamano Tafagag…”

2_bis_Albero_Tenere_oggiLe due carte geografiche che Moto On the Road vi mostra in questo servizio sono una piccola chicca.  Una è del 1969 dove si vede scritto “Arbre du Ténéré” (guardate il dito che lo indica con precisione). L’altra è stata stampata dopo, quando al suo posto fu eretta la struttura di pali. Infatti si vede aggiunta la parola “Monument”. I touager, invece, lo chiamano Tafagag, dal nome del pozzo lì vicino.

A richiamare l’attenzione su quel dettaglio sulla carta è Angelo Caprotti, 55 anni, ex dipendente Yamaha Italia. Caprotti, insieme all’amico Filippo Colombo (53 anni, ancora oggi in collaudatore per la Casa dei tre diapason) è l’anima della Dune Motor di Villasanta: una sorta di museo-laboratorio dove restaurano e realizzano repliche delle monocilindriche Yamaha che hanno corso nei rally africani. Ci sono una settantina tra XT, TT, Ténéré, YZ da cross e prototipi che hanno fatto storia dell’off road. “Non ripariamo e non vendiamo moto”, precisa Caprotti.

Angelo Caprotti, con la replica della Yamaha 570 di Merel alla Parigi-Dakar del 1982
Angelo Caprotti, con la replica della Yamaha 570 di Merel alla Parigi-Dakar del 1982

Oltre alle moto ci sono cimeli di ogni tipo tra road-book, fotografie e, appunto, documentazione cartografica. “Siamo in un’azalai – spiega Caprotti -. Una carovana del sale che parte da Agadez e arriva alle saline di Bilma passando per l’albero del Ténéré e un’altra oasi che si chiama Fachi. I carovanieri trasportavano datteri, sorgo e miglio; lo barattavano col sale e tornavano indietro”.

“Alla Parigi-Dakar, invece, era solo un punto sul road-book…”

Simbolo dell’Africa che fu, l’albero vero (ma anche quello di ferro), ha sempre ispirato i viaggiatori e gli scrittori di cose di deserto. Per i piloti della Parigi-Dakar, invece, era solo un punto sul road-book da trovare e lasciarsi alle spalle. “In quel tratto si viaggiava velocissimi e quella scultura era solo un punto di riferimento per me”. Schietto come sempre, parla così Edi Orioli, 52 anni, vincitore di quattro Parigi-Dakar (1988 con Honda, 1990 e 1994 con Cagiva e 1996 con Yamaha).

Franco Picco, 58 anni, è un altro africano eccellente: due secondi posti nel 1988 e nell’89; un terzo posto all’esordio nel 1985 tutti su Yamaha oltre a diverse vittorie al rally dei Faraoni (di cui una con la Gilera nel 1992). “Quando vedevo quel palo tiravo un sospiro di sollievo – dice Picco ridendo al telefono -. Alle prime edizioni cui ho partecipato – ammette – neanche sapevo che prima ci fosse un albero vero. Per me l’Arbre du Ténéré era solo un punto sul road-book: un’indicazione stradale come le “balises”: i cartelli di ferro sulle piste che indicano le vie. Io ero un pilota e quel tratto di pista era un “piattone” dove dare gas e non sbagliare strada. Se il tempo era bello lo scorgevi da lontano. Con le tempeste di sabbia, invece, lo vedevi all’ultimo”.

Franco Picco vanta dieci partecipazioni alla Parigi-Dakar negli anni 1980 (miglior risultato un 2º posto nell'88 e nell'89) e due vittorie al Rally dei Faraoni (1986 e 1990).
Franco Picco vanta dieci partecipazioni alla Parigi-Dakar negli anni 1980 (miglior risultato un 2º posto nell’88 e nell’89) e due vittorie al Rally dei Faraoni (1986 e 1990).

“E poi c’era la bussola da seguire e le indicazioni del road-book da tenere sotto controllo. Mi preoccupavo solo di stare sulla sabbia vergine e non entrare nelle tracce di altri mezzi di passaggio”. Quelle erano piste dove potevano essere transitati anche mezzi di trasporto delle popolazioni locali se non, addirittura, le “tecniche”: i “pick-up” dei ribelli con la mitragliatrice montata sul cassone.

“Infilarsi in una traccia – precisa Picco – poteva compromettere la direzionalità della moto. In più aumentava il consumo. Nella sabbia vergine, invece, davi gas e galleggiavi. Poi ho conosciuto la storia dell’albero e quando ho smesso di correre ho organizzato anche spedizioni più turistiche con la mia Franco Picco Adventures. Forse è stato lì che mi sono innamorato del deserto: quando ho smesso di correre. Ricordo che un anno, quando abbiamo sviluppato sul campo alcuni prototipi Yamaha siamo andati lì in agosto: un caldo da impazzire, ideale per testare le moto e noi piloti. Ecco: anche in quella occasione l’albero era solo un punto di riferimento. Poesia zero e gas a manetta lì attorno”.

Edi Orioli vincitore di quattro edizioni della Parigi-Dakar
Edi Orioli vincitore di quattro edizioni della Parigi-Dakar
Edi Orioli oggi manager dell'azienda di famiglia Pratic, specializzata nella produzione di tende da esterni
Edi Orioli oggi manager dell’azienda di famiglia Pratic, specializzata nella produzione di tende da esterni

E l’albero del Ténéré? “Niente di magico, ma molto strategico”, dichiara Orioli

Anche Orioli sottolinea: “La gara ti costringe a fare tutto in fretta, con l’assilo del cronometro e della pista da seguire. Così nel 2000 ho voluto ritornare nel Ténéré con uno spirito diverso. Mi sono inventato il “desert challenge 2000”. Era una sfida con me stesso: per ritrovare il piacere di montare in sella e guidare senza avversari. Infatti ho girato tre giorni come un cammello!!! E le stesse esperienze le ho volute rivivere nell’Atacama, in Cile, nel Gobi in Mongolia e poi in Asia sulla via Transiberiana. In quelle occasioni ho potuto entrare maggiormente in contatto con le persone che vivono in quei luoghi. Nel Ténéré ho anche visto profughi ammassati sui camion che scappavano dalla Libia”.

E l’albero del Ténéré? “Niente di magico, ma molto strategico – dichiara Orioli -. Non l’ho visto quando c’era l’albero vero. Ma attorno a quel palo ci sono sempre stati bidoni, relitti di auto, fusti di benzina. Lì c’è acqua ed era anche un posto per il rifornimento. C’è traffico. I cinesi hanno realizzato una copia pure lì e i giapponesi un’installazione con degli specchi. Alla mia prima Dakar nel 1986 – precisa Orioli – ho visto l’albero abbattuto esposto al museo di Niamey, la capitale del Niger. Ricordo che di fronte c’era il Sofitel”.

Caprotti non è un pilota ma in Africa c’è stato quasi 40 volte in moto

Grande appassionato del deserto, Angelo Caprotti, realizza quadri con sabbia la sabbia raccolta nei suoi viaggi
Grande appassionato del deserto, Angelo Caprotti, realizza quadri con la sabbia raccolta nei suoi viaggi

Il pretesto per scrivere questo articolo, dicevamo, è nato dalle carte geografiche che Angelo Caprotti ha tirato fuori durante una visita al capannone che divide con Filippo Colombo.

Caprotti non è un pilota ma in Africa c’è stato quasi 40 volte in moto, in macchina (Renault 4 e Land Rover) e anche a piedi. E oltre a moto, pezzi di ricambio e componentistica che ricostruisce da solo avrà circa 500 pubblicazioni sull’Africa.

“La prima volta ci sono andato nel 1979 con una Yamaha XT 500. L’ultima quattro anni fa con Filippo Colombo. Non ho mai corso – io ero un operaio della Yamaha di Gerno di Lesmo – ma l’Africa l’ho sempre avuta dentro credo. Sarà che mio papà ci ha combattuto e lavorato… non so. Qui direbbero Mactub… Così è”.

“Forse – dice Caprotti – prima ho avuto la passione per il Sahara e poi per la moto. Ho sempre guidato cercando di usare la testa più che la manetta. Eppure sono caduto tantissime volte, come tutti credo. In Africa ho perso anche due amici. Uno si chiamava Stefano. È morto dietro di me. La sua moto ha preso una cunetta, ha sbandato e l’ha disarcionato. Si è rotto l’osso del collo. Eppure il richiamo di questi spazi immensi è sempre stato più forte dei rischi”.

“Quando siamo andati in Ciad via Libia abbiamo visto anche noi persone che scappavano dalla guerra civile. Passare una settimana in queste zone aiuterebbe in molti a capire perché c’è chi rischia la vita per fuggire da qui. Tanti anni fa non era così. Poi l’Africa è cambiata. In tutto il Sahara c’è un’instabilità politica che rende pericoloso viaggiare”.

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Forse è per questo che Caprotti si è attrezzato per tenere viva la “sua Africa”. Nel capannone di Villasanta, che a fine marzo era ancora freddo, combatte con macchinari che gli sono stati regalati e che ha imparato a usare a poco a poco. Sudando, anche quando lì dentro fa freddo, a furia di battere e tranciare lamiere. E poi, ancora con abbondate olio di gomito per manovrare la “ruota inglese”: una macchina che elimina i gibolli dalle lamiere ribattute. E a furia di chinarsi per ammirare collettori, serbatoi, paracoppe e fiancatine, anche le ginocchia doloranti dei visitatori si scaldano dimenticandosi dei dolori.

La sabbia dell'Africa offre tonalità di colore che Caprotti sfrutta per i suoi quadri materici
La sabbia dell’Africa offre tonalità di colore che Caprotti sfrutta per i suoi quadri materici

E poi ci sono i quadri materici (senza l’uso di tempere) che Caprotti realizza macerando la terra e la sabbia raccolta nei deserti. “Non sono bravo a fotografare. Allora fisso le immagini della mia memoria e quando ritorno a casa dipingo i miei paesaggi africani. In base alla sabbia che uso tiro fuori l’ocra, il terra di Siena, il nero…”.

Dei tuoi 500 libri e pubblicazioni sull’Africa che cosa consiglieresti di leggere? “Dovendo scegliere direi “Ténéré, il deserto dei deserti”, di Aldo Lorenzi; poi “Sahara, vento e solitudine” di Cino Boccazzi” e tutti i libri di Theodore Monod. A proposito di Téneré che cosa dici della Yamaha? “Non hanno azzeccato solo il nome, che evoca il deserto. Era una gran moto… infatti è la Yamaha più venduta di sempre”.

Si stima che dal 1983 – anno della presentazione del primo modello al Salone di Parigi – tra il Ténéré XT600Z e il 660 ne siano stati venduti 61.000 in Europa nei dieci anni successivi.

Una moto-mito celebrata anche dal Ténéré Club Italia (www.clubtenereitalia.it). Fondato nel 1998, inizialmente era poco più di una mailing list. Oggi invece è un gruppo con un forum molto frequentato che annovera semplici curiosi, esperti di meccanica e grandi viaggiatori.

I fondatori sono Matteo Bonfanti e Massimiliano Pirola, detto Maci. Tra gli innumerevoli soci Moto on The Road ha contattato Paolo Feletti, 44 anni. “La passione per il Ténéré – dice Feletti – è nata guardando le prime gare in tv. Vedere i piloti in sella a quelle moto sfrecciare nel deserto era emozionante. Poi sono anche andato a Parigi, alla partenza della Dakar, per vederli partire: lì ho capito che erano uomini con qualcosa di diverso”.

Nato con un Ancillotti 80, passato a un Beta 125, poi a Yamaha da Cross e Honda CR500, Feletti si definisce uno che “ha cominciato con un cilindro a due tempi cattivo e ignorante per arrivare ad avere tanti cilindri”. Dieci anni fa avrebbe detto che la sua Ténéré preferita in assoluto fosse la SuperTénéré bicilindrica 750. Oggi, invece dice che è la 1VJ: la 600 del 1986 che sostituisce la mitica prima versione del 1983 e che ha beneficiato di alcune migliorie tecniche e dell’avviamento elettrico.

Ma, al di là dei modelli e della loro storia, c’è una cosa che sta a cuore a Feletti: “Mi piacerebbe che la moto aiutasse sempre più a favorire la passione e la comunione tra gli individui. E poi mi piacerebbe se tutti noi abbassassimo le nostre maschere senza avere paura di fare una figuraccia. Non è raccontando il viaggio più lungo e difficile che diventeremo persone migliori”.

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E poi c’è l’Africa: il soggetto di questa lunga storia che qualcuno avrà avuto la pazienza di leggere fin qui. L’Africa dei bambini con la pancia gonfia che però è vuota. Che potrebbero essere aiutati davvero ma che invece non vengono aiutati veramente. Forse temiamo che crescano? Ha detto così l’avvocato Andrea Grasso, 43 anni, davanti una pizza bufalina una sera milanese parlando poco di moto e tanto di tutto il resto.

Lo stesso Caprotti, cita una frase che qualcuno ha scritto a proposito dell’Africa, “Molti i viandanti hanno calpestato le sabbie del Sahara. Ma pochi gli uomini ne hanno lasciato una traccia”.

Quando la Parigi-Dakar era la Parigi-Dakar...
Quando la Parigi-Dakar era la Parigi-Dakar…

Ma si può amare l’Africa e – al tempo stesso – anche i raid come la Dakar che, per certi versi, l’hanno attraversata, ignorandone la vera essenza? Caprotti dice “Secondo i viaggiatori sahariani le gare come la Parigi-Dakar non hanno fatto bene ai territori. Ma io non sono un pilota e ritengo che la moto sia il mezzo migliore per viverlo. Quando sei in sella senti il freddo, il caldo e tutte le sensazioni che mi fanno sentire vivo. E poi io la Ténéré l’ho costruita quando lavorava in fabbrica. È una parte di me”

*Marcello Lo Vetere, giornalista e scrittore. Tra i suoi libri “Uomini in moto, racconti e cronache durante la crisi economica”. Clicca qui per leggere gratis il primo capitolo: www.fucinaeditore.it

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