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Mi spezzo ma non mi fermo

di Carlo Nannini (Kiddo)

“Te sei anca?”

“Veramente sarei acquario”
Il fisioterapista della clinica dove sono ricoverato e che ospita principalmente operati ad anche e ginocchi ( in questo caso è corretto ginocchi, ho controllato) sorride con indulgenza prima di farmi distendere sul lettino per iniziare gli esercizi.
Una settimana dopo l’operazione con la quale mi hanno sostituito buona parte del femore con una special part in ceramica ed ergal – e credo di essere uno dei pochissimi idioti che pensa di aver montato un accessorio ganzo – cominciano a farmi muovere i muscoli per riprendere la mobilità dell’arto. Fino a che si tratta di far lavorare il quadricipite femorale non ho grossi problemi, ma quasi subito mi accorgo con terrore che non riesco a sollevare la gamba se non con grande fatica: penso che mi abbiano tagliato qualche muscolo essenziale. Ovviamente, il primo pensiero è “non posso più guidare il motard!” o perlomeno, chissà quando ricominceranno a funzionare i muscoli necessari a rimettere i piedi sulle pedane dopo aver sfiorato il terreno. In sostanza, l’unica cosa che mi preoccupa è rimontare in sella al più presto possibile.
Dopo avermi spiegato quali sono i movimenti da evitare assolutamente per non rischiare la lussazione dell’anca (uno scenario da film horror, che implica riaprire, rimettere a posto, immobilizzarmi per un mesetto), mi spiega che l’angolo di piega della gamba, per i primi tempi, è sufficiente che arrivi a novanta gradi.
“Perché non hai mai guidato un Guzzi V11” penso io.
La convalescenza ospedaliera dura 19 giorni, durante i quali rallenti come se fossi andato dritto dal rettilineo di Magione sul sabbione, ma fai anche in tempo a rivivere mentalmente tutte le strade dove sei stato in moto più spesso e che ami di più. Una sorta di training autogeno per crisi di astinenza mentre percorri per la milionesima volta con le stampelle il corridoio col pavimento di Rosa Perlino che si trasforma di volta in volta nell’asfalto del Passo del Muraglione, della Sambuca, della Chiantigiana. Invece della tuta di pelle, il pigiama e le calze antitrombo, che devono il loro nome al fatto che difficilmente una donna può essere attratta sessualmente da un uomo con le autoreggenti.
Per andare al gabinetto, per non rischiare di ridurre l’angolo di piega dell’anca, si ha bisogno di un rialzo col quale non è immediato familiarizzare ma che diventa una sorta di accessorio indispensabile, e che limita notevolmente la capacità di allontanarsene per provare esperienze inusuali tipo farsi venire in mente di provare a farla fuori casa.

Le ore peggiori di depressione caspica sono quelle dopo la cena (alle 6 del pomeriggio), in cui non hai niente da fare, ma almeno nella nuova condizione di slow life hai modo di fare quelle cose che un casco e un motore acceso non ti hanno dato modo di sperimentare da anni: parlare con le persone, anche e soprattutto se sono lontane geograficamente, culturalmente e come età. Non gestendo il telecomando della televisione in camera (della quale avrei fatto volentieri a meno) e potendo dormire solo a pancia in su posso sperimentare l’esperienza di sorbirmi TUTTA la prima del Fidelio di Mozart alla Scala. In tedesco!

Un signore napoletano ha trascorso due settimane convinto che fossi straniero (forse rumeno) perché non lo capivo quando parlava; ma era lui che dialogava in napoletano stretto! Interessarsi davvero della salute di una persona più o meno anziana con la quale dividi la stanza o la corsia, scambiare opinioni, pensieri, esperienze. Sarebbero forse una condizione di vita normale se non ci sentissimo obbligati a trascorrere tutta la vita in una frenetica continua corsa, che ricomincia appena ritorno a casa e vado alla grande con una stampella sola, grande conquista che permette di trasportare un oggetto, all’occorrenza, tipo il telecomando dalla tavola di cucina al divano; progresso comparabile solo alla conquista della posizione eretta che consentì all’uomo primitivo di trasportare il cibo dai territori di caccia fino al villaggio.
Dopo qualche giorno riesco a riconquistare pure la guida della macchina, ma la moto rimane un miraggio, anche perché non ho l’appoggio sicuro sulla gamba operata e una qualsiasi manovra che richieda di mettere la gamba a terra potrebbe risultare un disastro.

Mi spezzo ma non mi fermo
The traumatic bike by Kiddo

Riesco con fatica e grazie al cavalletto alzamoto che ha le rotelline a trascinare sulla porta del garage la moto in modo da non doverla accendere dentro e rendere così l’aria irrespirabile, tanto per sentirne il suono e il profumo, ma non mi è di grande conforto, anche perché sono arcisicuro che se potessi provare riuscirei a guidarla. Anzi, qualche giorno dopo con la complicità di un amico riesco a montarci sopra e la sensazione diventa consapevolezza! Seduto sulla sella, il peso scarica pochissimo sui piedi, e anche la gamba operata riesce a sostenere alla grande, sarei tentatissimo di accendere e provare a fare un giro.

Ma poi no, dai, troppo pericoloso. E se dovessi appoggiare all’improvviso il piede? E dove mi fermo se non ho la stampella quando scendo? E poi, ultimo ma non meno importante, il rialzo per il cesso. E se a metà tragitto mi scappasse un bisogno?

Per qualche giorno devo resistere, mi dico, ma poi… arriva il colpo di genio!

Ma come?! Attrezzano la moto per qualsiasi necessità, mi devo far spaventare per così poco? Ecco così che elaboro la versione “protesizzati d’anca” della mia moto. Magari non sarà eccezionale dal punto di vista estetico, ma ha un suo fascino dettato dalla necessità! Rialzo del cesso sul posteriore della moto, stampella come una lancia in resta e via, alla scoperta del mondo.

Perché si potrà dire quello che si vuole, ma un motociclista vero, non si ferma certo per qualche difficoltà!

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