Una GS, l’eclissi di sole e ciuchi che ragliano

di Kiddo

Mercoledì 11 agosto 1999 alle ore 10,30 di Tempo Universale (naturalmente alle 12,30 segnate dagli orologi), in prossimità del confine fra Francia e Germania vicino alla città di Saarbrucken, la luna si interpose fra la Terra e il Sole, dando luogo ad una eclissi totale, che durò circa 2 minuti e 11 secondi.

Dentro ad un orto in prossimità di una stradina di campagna, alcuni istanti prima un gruppetto di papere avevano cominciato a starnazzare per poi addormentarsi di colpo nel momento di maggiore oscurità.
Nel silenzio assoluto e innaturale di un momento così magico e catartico, un ciuco cominciò a ragliare furiosamente.
Noi, più che altro per il sollievo dalla brutta esperienza del giorno prima, ci mettemmo a ridere come pazzi.
Eravamo in viaggio attraverso la Francia ormai da una decina di giorni, passati quasi tutti sotto le più svariate tipologie di pioggia. Fin dal primo giorno, in Provenza, l’acqua era stata una compagna fedele e assillante. Il nostro abbigliamento tecnico constava, all’epoca, di una paio di caschi modulari BMW, giubbotti di pelle molto glamour e molto vintage ma senza protezioni di nessun tipo, a parte qualche cucitura un po’ imbottita, pantaloni di pelle da bancarella con fianchi intrecciati, stivali di pelle e guanti da operaio edile.
In sostanza, due grosse spugne con ottimi caschi.
Viaggiare in estate, però, fa sì che il sole riscaldi molto quando esce, e passavamo dall’acqua alla funzione “asciugatura rapida”, e solo in alcuni casi ripartivamo la mattina con la roba ancora umida.
Si era giovani, che ci fregava dei dolori reumatici che ci avrebbero aspettato negli anni a venire?
Il programma era stato studiato in ogni dettaglio: si parte, verso i Castelli della Loira (a proposito, dove rimane la Loira di preciso?), poi si guarda, se non è troppo lontano si arriva a Mont San Michel, sennò si gira il culo e si torna indietro. Il percorso lo vediamo il giorno prima, ma tanto si va verso Torino, e una volta il Keke mi ha detto che il passo della Maddalena è bello bello; si cerca di evitare le autostrade, soprattutto per il pedaggio che in Francia è molto caro, alle 5 del pomeriggio ci si ferma e si cerca un paesino che ci piace, magari con una bella festa del patrono, o della schiacciata con le rane fritte, o del vino strizzato coi piedi; si trova un alberghino che ci piace, doccia, cena, giratina e a letto. La mattina alle nove pronti a ripartire.
Di solito riuscivamo a percorrere fra i 500 e i 700 chilometri al giorno, a seconda dei passi di montagna o delle pianure che incontravamo.
A dire il vero, avevo cercato di pianificare la rotta con una maggiore precisione, studiando la cartina della Francia. Fino ad allora, giuro, ne avevo solo una dell’Europa. Ma siccome avevo praticato il tentativo la sera a letto, stanco morto, mi fu fatale soffermare l’attenzione sulla silhouette del Paese sulla copertina (sembra incredibile, ma si imparano un sacco di cose dalla forma di una Nazione). “Studio un po’ il percorso”, avevo rassicurato la mia signora dieci secondi prima.
Per farla breve, mi addormentai come un sasso con la cartina, chiusa, in mano. Lei mi prende ancora per il culo. Che merda.


Ma eravamo giovani, che ci fregava di non sapere dove ci saremmo fermati la sera, quanti soldi ci sarebbero voluti (tenuto anche conto che non avevo una carta di credito) o quale strada conveniva percorrere?!
Sempre meglio di un gruppo di amici di Borgo, che la mattina della partenza per la vacanze buttavano una monetina sulla cartina dell’Europa per decidere la destinazione. Magari partivano per la Transilvania, nello zaino ciabatte, asciugamano e un paio di magliette di ricambio.
O di quegli altri, che tornando dalla Spagna continuavano a seguire le indicazioni per Genève, sicuri che stesse per Genova, e riuscirono a raggiungere Firenze, dopo il salasso svizzero, con 1000 lire in quattro.
I castelli della Loira li vedemmo tutti, e credo di essere l’unico bipede rimasto deluso dalla visita, più che altro per ragioni professionali. Rimasi profondamente sconfortato dal fatto che sono costruiti con una specie di tufo, un materiale che si lavora con un a facilità disarmante. Scenografici, certo, di grande effetto, ma che sforzo sarà mai?!
La gita in barchetta a remi sotto il castello di Chenoncheaux mi lasciò invece un enorme passione per la canoa.
Per la stessa ragione mi esaltai visitando l’abbazia di Mont San Michel. Ero quasi irritato nei confronti delle orde di turisti che fotografavano distrattamente quell’opera straordinaria, realizzata in durissimo granito con pochi ferri.
A Sant Malo, che visitammo soprattutto alla ricerca di un wash & dry, conoscemmo durante l’asciugatura una coppia di ragazzi di Parigi, con i quali ci mettemmo a conversare, e che per primi ci parlarono dell’eclissi di sole, della quale noi naturalmente non sapevamo niente.
In Italia infatti, la cosa non suscitò nessuno scalpore, poiché mediamente sarebbe passata con un oscuramento di circa il 70% solo al nord, mentre noi eravamo già nella fascia del 100%.
In Francia, al contrario, era già da qualche mese che le riviste regalavano occhialini di cartone oscurati. I nostri nuovi amici ce ne regalarono due paia, noi ringraziammo ma non si prese la cosa molto sul serio. A dire il vero il nostro albergatore ci aveva avvisati che avremmo dovuto lasciare la camera entro il 9 agosto, ma per noi rimanere tre notti nel solito posto era fin troppo.
Visitammo poi la Normandia, le spiagge dello sbarco, meta di turisti soprattutto americani, che ci guardavano con un misto di curiosità e diffidenza per le nostre tenute vistosamente “crucche”.
Era l’anno di “Salvate il soldato Ryan”, e visitare quei luoghi era un pellegrinaggio da brividi, soprattutto con le immagini dello sbarco ancora così vive negli occhi.
Decidemmo di “circumnavigare” Parigi, e ci fermammo in un paesino noto perché la Senna fa una “S” del quale non sono riuscito a ricostruire il nome, e per la prima volta rimbalzammo almeno due o tre posti. Brutto segno. Ovviamente, già da questi sintomi avremmo dovuto cominciare a preoccuparci; ma si era giovani, volevamo andare in moto, il metodo delle 5 del pomeriggio non aveva mai fallito… ecco, magari domani ci fermiamo prima!


D’altronde di alberghini puliti ed economici sembrava piena la Francia. Di solito con 30.000 lire si dormiva. Una volta trovammo un alberghetto, accanto al castello progettato da Leonardo da Vinci (ma guarda un bischero di Empoli quanto ha girato…) dove ci davano una camera per 15.000 lire. Solo che si riusciva ad entrare nel cesso solo a marcia indietro, e sotto il letto erano ammucchiati ogni genere di rifiuti: lattine, cartoni della pizza e… non indagammo oltre. Riagganciammo le valige alla Becky e scappammo.
Quello che costava veramente tanto, invece, erano i ristoranti. Noi ovviavamo pranzando quasi sempre negli immancabili Mec all’ingresso di ogni paesino, anche piccolissimo. Il nostro fermo intento era di riuscire a farci venire un fegato come pugili senza durare fatica in palestra.

La mattina del 10 agosto, il giorno prima dell’eclissi, perdemmo un po’ di tempo a fotografare la famosa ansa della Senna: d’altronde la pioggia non mi aveva quasi mai dato l’opportunità di tirare fuori la macchina fotografica, e qualche ricordo volevamo pure portalo a casa…
Ripartimmo cercando di tenerci lontani da Parigi, ma quasi subito ci sorprese l’insolito traffico di auto per le strade secondarie che percorrevamo di solito. Dopo 200 km al massimo, cominciammo a pensare che qualcosa non andasse, e ci tornò in mente di colpo: l’eclissi di sole!
Quei ragazzi a Sant Malo ci avevano avvisati del movimento di persone che avrebbe causato, tutti ammassati e prenotanti da mesi ogni singola camera di albergo, pensione, topaia, sottoscala o brandina come neanche nei giorni del motomondiale al Mugello.
Cominciammo a fermarci dalla tarda mattinata in ogni paesino, affacciandoci ad ogni albergo per chiedere se avevano posto. La risposta era sempre la stessa: “pà de plas”.
Io avevo istruito mia moglie, che di solito manda avanti me, perché scendeva più rapidamente.
“devi chiedere: -avevù de plas?-“
“e se poi mi dicono –ui-?”
“tanto ti dicono di no”
“e di no come lo dicono?”
Intanto, ovviamente, aveva ricominciato a piovere. Tenevo la cartina incastrata dietro il cupolino della moto. Mi fermai per consultarla, ormai indifferente all’acqua che scendeva.
“Eh, ma così mi si bagna la cartina!”
Ci mettemmo a ridere cercando una tettoia per ripararci, e decidemmo che l’unica cosa sensata da fare era di cercare di allontanarci più possibile dall’area del 100%, sperando di trovare meno folla.
A sud!
Quando sei da solo, dentro il casco, in compagnia dei tuoi pensieri, assapori spesso un senso di calma e serenità che poche volte si ha occasione di sperimentare, in condizioni normali. Ma se cominci a farti delle seghe mentali, a preoccuparti per qualcosa, la tensione, il non poter condividere l’ansia con nessuno, cresce come panna montata. Mi sentivo in colpa per la mia abitudine di non voler mai prenotare niente, di voler vivere l’avventura a qualsiasi costo. Ero preoccupato e mi sentivo responsabile per la mia compagna, per quello che poteva succederci a stare di notte in giro, senza un tetto, sotto l’acqua. Cominciai a prendere in considerazione tutte le eventualità, fra le quali la chiesa ( ma avete mai visto una chiesa aperta di notte?), la Gendarmeria, la stazione, la panchina nel parco (sempre che non piovesse). Nella maggior parte dei casi mi vedevo derubato da un tizio col coltello o la siringa, che si allontanava con le chiavi della mia Becky mentre io mi raccomandavo che le facesse il tagliando fra 3000 km.
Praticamente tutto il giorno lo passammo nel solito modo, rimbalzando da un paesino all’altro, ottenendo sempre la solita risposta: tutto pieno. Con un’unica eccezione: una topaia con trattoria al piano di sotto, dove le mosche annerivano un qualcosa appeso al soffitto. Giuro non saprei dire cosa.
“Avevù de plas?”
“an moman, gie demand…”
Il lurido oste scomparve dietro una tendina di perline di plastica. Noi scappammo dalla porta di ingresso, terrorizzati che la risposta potesse essere positiva.
Cenammo in un BuffaloGrill con il groppo alla gola, angosciati dalla situazione.
Alle dieci circa, ormai abbastanza disperati, arrivammo a Vittel, vicino al confine con la Germania. Mi affacciai alla hall di un buon albergo, dove, levandomi casco e sottocasco, mi apprestai a rivolgere al garçonier, concierge, insomma il tipo che sta al bancone, la mia offerta irrifiutabile:
“bonsuar”
“bonsuar, nu n’avo…”
“ui, ui, gie lui se, vunavepadeplas!…”
“ui messie”
“gie vulevu fer an question”
“dit mua”
“nu som avec la moto, nu navon pa an plas u nu fermè pur la nuit. Sé pa possibile, pur vu, nu fer entre dan la hall de l’otel e nu fer riposer chelq er?…
No, via, viene du palle… Praticamente la mia offerta-supplica consisteva nel farci restare a riposare qualche ora sulle poltrone della hall dell’albergo, da quando sta chiuso per la notte, fino all’alba, momento in cui avremmo tolto il disturbo. Pagando ovviamente, il prezzo della camera per intero. Il tipo, forse inorridito dal mio francese, o, secondo la teoria della mia signora, attirato sessualmente dalla mia maschia presenza, non mi lasciò finire la frase. Forse è valida la prima. O forse si mosse davvero a compassione. Fatto sta che alzò il telefono e si mise a chiacchierare con qualcuno all’altro capo. Dieci secondi dopo, stava indicando a una coppia di italiani impauriti e fradici come lumache la strada per una cittadina vicina, distante (solo) una cinquantina di chilometri.
Oltretutto, eravamo anche secchi. Come un oasi nel deserto, ci venne incontro un self-service. Dai, un trentino (100 franchi, se non ricordo male) e si riparte, speriamo che il tipo non ci abbia preso per il culo… solo carta!
Disfatta! E si che mi vedevo già con la moto al sicuro, noi a dormire al coperto. Come ho detto, noi giravamo con i contanti,e la speranza di un altro distributore nei paraggi era pressappoco un miraggio. Dovevamo essere a Epinal più in fretta possibile, e quando oramai sembrava fatta, mi vedevo sfumare la salvezza. Arrivò un ragazzo in macchina, che non mi fece neanche finire di chiedere che si era preso il centino e mi diceva di mettere benza. Ancora una volta ci aveva detto bene.
Le città termali si assomigliano tutte.
Ogni volta che ne incontro una e la devo descrivere, dico: “è come Montecatini”
Ecco, Epinal è come Montecatini, solo che aveva il concessionario Voxan.
La strada per Epinal, invece, era buia, deserta, in mezzo al bosco e talmente isolata che si incrociò una macchina sola in 50 km. Quelli della macchina avranno detto: “si è incrociato solo due bischeri in moto…” dé bischer.
Ci sono momenti dei quali ti ricorderai per sempre di quanto ti ha dato il ferro che ti porta a giro. Potersi fidare della nostra Becky in maniera così assoluta era l’unico conforto al pensiero che se avesse attraversato un animale, fossimo incappati in una scivolata, o avessimo avuto qualsiasi tipo di problema, difficilmente ci sarebbe stato qualcuno a cui raccontarlo prima di mattina.
Confidavamo nell’assoluta affidabilità del nostro Gs 1100. durante un viaggio del genere, la moto diventa qualcosa di molto più importante di un semplice mezzo di trasporto. È la tua complice, è il mezzo ma anche il fine, è il terzo di una compagnia che conta l’uno sull’altro. Di solito sei portato a idolatrarla finchè fa bene il suo lavoro ma anche a non perdonarle niente. La rottura del gancio in plastica che regge la sella del passeggero solo perché hai provato a richiuderla con un cazzottone sulle spiagge vicine a Mont San Michel viene vissuto come un tradimento bello e buono; il confortante borbottio e la sensazione di sicurezza trasmessa da un motore boxer che si vede quasi identico nei film di guerra, ti fa assicurare che in quel momento, su quella strada buia e deserta, non vorresti affidarti davvero a nient’altro.
Finalmente, verso le undici di sera, arrivammo all’hotel che ci aveva indicato il direttore dell’albergo di Vittel. Attraversammo i corridoi deserti e completamente illuminati, identici a quelli di “Shining”, guidati da una sorta di Conte Dracula. Nel mio ricordo, aveva un candelabro in mano. La memoria, a volte, fa brutti scherzi.
Rincoglioniti dalle vibrazioni, dall’aria, dall’acqua, dall’ansia che avevamo sorbito durante tutta la giornata, ci buttammo sul letto.
“Se ti garba moscio, stasera ti fo impazzire”
“Preferirei una coltellata”
“buonanotte amore”
…Però avevamo un tetto, e tanto ci bastava.
Che dire, eravamo giovani, ci era andata bene e lo sapevamo. La brutta esperienza non ci avrebbe mai insegnato niente. La mia signora avrebbe continuato a chiedermi, conoscendo già la risposta se non mi sembrava il caso, per la prossima volta, di prenotare i pernottamenti. A dire la verità lo facemmo l’anno dopo, quando andammo a Fussen in Germania e lei tornò incinta di Axel, che si chiama così perché… ma questa è un’altra storia, che vi racconterò nei prossimi capitoli…
La mattina ci alzammo fiduciosi nel mondo, scaldati da una bella giornata di sole. Traccheggiammo dal conce Voxan per vedere dal vivo quelle meraviglie ormai pressoché estinte.
Se vinco al superenalotto metto su una fabbrica di stupendi bicilindrici. Poi fallisce, ma intanto mi levo la soddisfazione.
Ripartimmo in direzione sud, decisi a rientrare in Italia attraverso la Svizzera, Losanna e il Gran San Bernardo. Verso mezzogiorno, percorrendo una stradina di campagna, vedemmo le prime macchine ferme ai lati della strada. Ci fermammo accanto ad una specie di fattoria; le papere innervosite dal rumore della moto, starnazzarono. Recuperammo dal bauletto gli occhialini che ci avevano regalato i nostri amici del wash & dry e osservammo la luna passare davanti al sole. Intorno a noi, fu come se qualcuno avesse spento la luce. Una penombra innaturale calò sulla campagna francese. Le papere si chetarono per poi mettersi a dormire.
Un ciuco dentro un recinto, cominciò a ragliare impaurito.
Noi, ci mettemmo a ridere come pazzi.

Un ringraziamento particolare a Marco “Prof.” Menichelli, che mi ha fornito i dati scientifici riguardanti l’eclissi di sole. www.marcomenichelli.it

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